Il cinema asiatico meriterebbe, per vari motivi, più spazio in Occidente. Ma quali sono i maggiori capolavori cinematografici nati nell’Est del mondo?
<< Torna alla prima parte
7. L’intendente Sansho (1954, Kenji Mizoguchi)
Kenji Mizoguchi fa parte de “la grande triade” giapponese insieme a Ozu e Kurosawa. Entrambi i suoi due ultimi capolavori (I racconti della luna pallida d’Agosto e L’intendente Sansho) vinsero il Leone d’Oro al Festival di Venezia negli anni ’50. Le due vittorie consecutive hanno reso Mizoguchi uno dei registi giapponesi più acclamati a livello internazionale.
I suoi film sono spesso definiti “tristi ma belli” e la sua maestria nella messa in scena e nell’uso dei piano-sequenza è inconfondibile. L’intendente Sansho, che racconta del rapimento di una madre e i suoi due bambini che verranno poi venduti come schiavi, è uno dei film più tristi e commoventi mai realizzati e viene considerato come la quintessenza del cinema asiatico.
6. Close-Up (1990, Abbas Kiarostami)
Il cineasta francese Jean-Luc Godard una volta disse: “Il cinema inizia con D.W. Griffith e finisce con Abbas Kiarostami“, riferendosi all’innovazione che il regista iraniano ha portato nel linguaggio cinematografico. Difficile scegliere quale dei suoi capolavori inserire in questa lista, ma come esempio abbiamo infine deciso di inserire Close-up.
Nel 1989 un uomo venne arrestato dopo essersi spacciato per il regista Mohsen Makhmalbaf, e Kiarostami, che era impegnato su un altro progetto, mise questo da parte perché aveva intenzione di girare un film sull’evento, convinto che l’incidente fosse una chance unica per sperimentare un linguaggio del tutto nuovo. Kiarostami usò le stesse persone che assistettero all’evento come attori all’interno del film. Il regista convinse il giudice a filmare le udienze del processo e di basare i dialoghi su un copione abbozzato che egli aveva preparato. Lo spettatore ha l’impressione di guardare un documentario, ma in realtà tutto ciò che accade sullo shermo è stato deliberatamente deciso dal regista. Non è la prima volta che accade nella storia del cinema, ma Kiarostami è riuscito a farlo in una maniera del tutto nuova e sorprendente.
Close-up non partecipò ad alcun festival internazionale, ma impressionò i cinefili di tutto il mondo e la rivista Film International lo considera come il miglior film iraniano mai realizzato.
5. In The Mood for Love (2000, Wong Karwai)
Sin dai primi anni ’90, l’autore hongkonese Wong Karwai si è fatto notare per la stupenda estetica dei suoi film, e ciò ha contribuito a farlo diventare il regista asiatico vivente più conosciuto nel resto del mondo. In the mood for love è senza dubbio il suo lavoro più apprezzato (curiosamente il sequel del film, intitolato 2046 è invece il più sottovalutato).
Un uomo e una donna, entrambi sposati, si innamorano, ma devono reprimere i loro sentimenti in rispetto alla rigida morale tradizionale. Questa è la trama di Spring in a Small Town, bellissimo film cinese del 1948, ma è anche la trama che Wong riprende per il suo capolavoro. Il regista però rimuove il sotto-testo sociale dalla storia e ci aggiunge il proprio tocco, usando la prevalenza di tonalità rosse e gialle per enfatizzare l’intimità fra i due protagonisti. Una colonna sonora intrisa di nostalgia ed eleganza contribuisce a rendere In the mood for love un’esperienza cinematografica unica.
4. The World – Shijie (2004, Jia Zhangke)
È possibile girare il mondo in un solo giorno? Lo è nel film di Jia Zhangke, il “porta-bandiera” della sesta generazione di registi cinesi, il quale si è ispirato a un parco a tema di Pechino il cui il mondo è rappresentato in miniatura. Nel vedere la soddisfazione dei turisti davanti alla piccola riproduzione della torre Eiffel o alla versione in scala delle Piramidi di Giza, il regista decise di fare un film sulle persone che vivono in questo mondo in miniatura.
I film di Jia Zhangke esplorano la vita quotidiana dei cinesi nel pieno di un periodo di rapida trasformazione della società. In The World il regista vuole rivelare il lato pericoloso, seducente e disorientante della globalizzazione. Le persone rimangono intrappolate in una gabbia che essi stessi hanno costruito, vedono il mondo rimpicciolirsi giorno dopo giorno ma non riescono a realizzare le distanze ciclopiche tra le diverse culture, tradizioni e i differenti stili di vita.
3. Yi Yi – …e uno …e due (2000, Edward Yang)
L’epopea familiare di Edward Yang, Yi Yi, è un film cinese classico con una forte profondità filosofica. Il titolo, tradotto con …e uno…e due, si riferisce al cerchio infinito della vita in senso Taoistico. Yang è uno dei più importanti registi del nuovo cinema taiwanese (insieme a Hou Hsiaohsien e Tsai Mingliang). Il suo cinema postmoderno è intriso di critica sociale e di una poetica visiva che deve molto al regista italiano Antonioni, soprattutto nel modo in cui è rappresentata la città, le cui inquadrature, nel caso di Yi Yi, ricordano quelle del film La notte.
Yang ama porre molte domande alla gente, le cui risposte vengono date sia dai personaggi del film sia dallo spettatore. La sua filosofia è pervasa di un pessimismo che potremmo definire leopardiano: la vita è sofferenza, e non c’è modo di evitarlo. Ogni personaggio del film ha i suoi problemi, soffre la solitudine e l’alienazione della società contemporanea, e non c’è via d’uscita a tutto questo.
Yi Yi inizia con un matrimonio e si conclude con un funerale, e la frase conclusiva “Mi sento vecchio” pronunciata da un bambino, riassume perfettamente il viaggio della vita intrapreso nel film.
2. Hanyeo (1960, Kim Ki-young)
A meno di essere degli appassionati di cinema coreano, difficilmente avrete sentito parlare di Kim Ki-young. Eppure potremmo definirlo il padre spirituale di registi molto più famosi come Park Chan-wook, Bong Joon-ho e Kim Jee-woon. Il suo film Hanyeo ha ispirato un’intera generazione di cineasti sudcoreani.
Ki-young ha lavorato durante l’epoca d’oro del cinema coreano, che si colloca fra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, ha iniziato la sua carriera con dei film simil-neorealisti, per poi discostarsi dal genere e dare alla luce quello che viene considerato il suo più grande capolavoro che è, appunto, Hanyeo.
L’intero film è ambientato nella casa dei protagonisti, ed è un melodramma erotico e psicologico in cui il fatto che non venga mostrato nulla di esplicito, non riesce a cancellare il forte erotismo di cui la pellicola è intrisa. La tensione della storia d’amore fra il padrone di casa e la sua cameriera è fortemente psicologica.
I lavori di Ki-young rimasero sconosciuti all’Occidente fino alla fine degli anni ’90, ma il regista non potè godere dell’apprezzamento dei cineasti di tutto il mondo perché morì pochi anni prima della retrospettiva che gli venne dedicata a Berlino nel 1998.
1. Il lamento sul sentiero (1955, Satyajit Ray)
Il lamento sul sentiero, conosciuto anche come Pather Panchali, è probabilmente il film più importante di tutto il cinema indiano e la trilogia di Apu del regista Satyajit Ray (di cui fa parte questa pellicola) viene considerata una delle più belle di tutta la storia del cinema.
Ray decise di diventare un regista dopo aver scoperto i lavori Jean Renoir e del neorealismo italiano mentre lavorava in un’agenzia pubblicitaria. Egli si occupava di tutti gli aspetti del film: dalla sceneggiatura alle musiche, fino al disegno dei poster per la pubblicizzazione. Guardare un suo film è come leggere un libro sulla storia e la cultura dell’India, poiché il regista riesce a rappresentare perfettamente ogni aspetto della società indiana.
La trilogia di Apu è uno dei migliori esempi di film sulla crescita, ed è stata girata prima della serie di Truffaut su Antoine e mezzo secolo prima del capolavoro di Linklater Boyhood. In Il lamento sul sentiero troviamo in particolare chiari segni del genio di Satyajit Ray: lo stile naturalistico e poetico, e il modo umano e realistico di raccontare una storia in fin dei conti semplice.
<< Torna alla prima parte
1 – 2
[…] Continua >> […]