Le idee, le fortune e i sogni di Mattia Mura, regista toscano e giovane baluardo della diffusione della cultura cinematografica.
Mattia Mura, giovane regista italiano laureato in Arti e Scienze dello Spettacolo all’Università Sapienza di Roma, ha già alle spalle una carriera molto interessante, nonostante la giovanissima età: dopo un lungo percorso come regista presso la Helix Pictures, ora lavora per il progetto Fabrica del marchio Benetton. Noi siamo andati a intervistarlo per farci raccontare qualcosa in più e per conoscere le sue idee sul panorama cinematografico contemporaneo.
- Nonostante la tua giovane età, hai già un curriculum molto lungo: pubblicità, corti, documentari. Quale tra queste attività ti diverte di più?
L’unica che non hai citato: la video arte! A parte gli scherzi, ogni attività ha i suoi aspetti divertenti e i suoi disagi. Effettivamente da un punto di vista creativo la video arte è ciò che mi appassiona di più (mi riferisco sia ai cortometraggi sperimentali che ai video monocanale o alle installazioni), ma forse non è l’attività più divertente.
I corti e la pubblicità sono due mondi diversi e entrambi interessanti, e capita in entrambi i casi di poter raccontare una storia, che è una mia prerogativa. La parte pesante sono i tempi morti, le attese – tipiche delle grandi produzioni – e tutta l’attività di allestimento del set. Sono attività dove ruota tutto intorno alla finzione, oltre che all’immaginazione, e forse in questo preciso momento sento un certo bisogno di realtà in più, magari perché dopo tanto lavoro di fantasia ho voglia di qualcosa di tangibile, di concreto. Intendiamoci, tutto ciò che è video è finzione, mistificata dal montaggio. Ma in un film o in uno spot non hai solo il montaggio come motore della finzione, anche l’inquadratura della macchina da presa si affaccia su un panorama costruito appositamente per quel lavoro, e quindi su una realtà artefatta, una finzione.
Insomma, in questo momento sembra che la finzione sia un problema per me, perciò posso dire che adesso – ma si tratta di un adesso molto labile – la cosa che più mi diverte è fare documentari, i video che ti raccontano un fatto reale – sia che si tratti di una storia da raccontare in due minuti come in due ore – specialmente se è qualcosa di particolarmente “live”: hai una storia, ti ci immergi dentro, cerchi di scoprire il più possibile sul suo conto e poi la racconti, magari filmandola dal vivo, mentre accade. Ci sei tu, la tua idea, la telecamera, qualche assistente e una bella fetta di realtà: devi arrangiarti con le luci che trovi, i tempi ristretti, le situazioni d’emergenza… Una vera avventura, insomma! E non hai neanche la rottura di interagire con gli attori, che sono una razzaccia! [ride]
- Come è nata la tua passione per il cinema?
Dalla scrittura! Ho iniziato a leggere prima dei 4 anni, a 9 avevo scritto un romanzo fantasy e a 14 anni lo ho pubblicato. Ho sempre avuto una passione viscerale per raccontare storie, e ho scritto almeno altri 4 romanzi inediti… Ma nell’adolescenza la parola scritta mi è sembrata un po’ una sorella maggiore, che si imbelletta di aggettivi e costruzioni elaborate senza essere ancora del tutto una donna. In quel periodo avevo un amico che sognava di diventare regista, e allora scrissi una sceneggiatura per lui e iniziammo a lavorarci su. Il mio primo set l’ho vissuto nel 2006, subito dopo la pubblicazione del romanzo. È stato allora che ho scoperto questo nuovo linguaggio: avevo delle idee, ero curioso di esplorare questo modo diverso di scrivere e questa dimensione nuova di raccontare. La sceneggiatura ha un’essenzialità che è la sua potenza, e l’immagine lo è ancora di più: può arrivare senza bisogno di nessuna parola.
Ho iniziato a fare video praticamente subito dopo quel primo contatto: erano video stupidi, dove inventavamo delle gag comiche con alcuni amici o fingevo di vendere una calcolatrice portentosa che avrebbe rivoluzionato la vita delle persone. Praticamente vivevo la fase da youtuber senza usare youtube, facendo vedere questi video ad altri amici durante le occasioni d’incontro… Piano piano ho visto che c’erano degli apprezzamenti, che poteva essere un buon modo per esprimersi. Alla fine delle scuole medie avevo girato un documentario sul passaggio della seconda guerra mondiale nelle mie zone, e a metà liceo avevo scritto altre tre sceneggiature di lungometraggi. Il mio primo lavoro un po’ più serio ed elaborato è stato un lungometraggio indipendente, nel 2009, scritto e diretto da me, allo sbaraglio e all’arrembaggio. Si chiamava “Rumore Inverso“, era la storia di due spazzini che assistono a un suicidio durante il loro lavoro, e la cosa cambia totalmente le loro vite. È con quel lavoro che tutto si è fatto più concreto, come aver fatto cadere il primo tassello di un domino tutto il resto è venuto fuori naturalmente da quella prima, faticosa spinta. Da lì sono arrivate le prime richieste di collaborazioni, nuovi progetti… non mi sono più fermato, e ogni nuova proposta era l’occasione di scoprire un mondo nuovo, di migliorare e di imparare qualcosa in più.
- Cosa pensi di chi va a cercare fortuna all’estero? Pensi che sia fondamentale per lavorare in questo settore, o in Italia ci sono ancora buone opportunità, al contrario di ciò che si crede di solito?
Ho girato un po’ tutta l’Europa, anche se sempre per brevi periodi, e ho avuto occasione di lavorare a un video in Finlandia… prima che entrassi a Fabrica stavo pianificando un Erasmus in Belgio, quindi penso che l’estero abbia una grossa importanza. Ma non tanto per il lavoro, quanto per una crescita personale. Non penso che “cercare fortuna” sia fondamentale per fare un bel niente, ma penso che fare esperienza all’estero – e conoscere almeno una o due lingue straniere – sia importantissimo per aprire la propria mente e diventare un po’ più elastici.
Pavese scriveva: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”, e penso possa essere un manifesto generazionale per tutti coloro che sono nati in provincia, almeno da quando ha scritto quella frase ad oggi. Ho amici che non si sono mai mossi di casa, ed è uno stile di vita che non potrei sopportare. Magari a loro va bene, ma non è il mio, almeno non adesso. Sono stato quattro anni a Roma, e appena sono tornato stavo già pianificando dove spostarmi. In Italia ci sono buone opportunità, solo che nel mucchio di “brutte opportunità” si fa fatica a riconoscerle. Diffido sempre di chi ti propone una forma di valorizzazione in cambio di un sacco di soldi: tutte quelle accademie e accademiucole, tutti quei produttori e editori che ti propongono il successo assicurato in cambio di un sacco di soldi dovrebbero scomparire dal pianeta. E non sono solo in Italia! In Europa ci sono centinaia di scuole di cinema e teatro di ogni stile e qualità che si fanno forti del proprio nome per chiedere migliaia di euro agli studenti. In linea di massima, quello che compri in queste realtà è un po’ di esperienza, il parco contatti della scuola, e il suo nome nel curriculum, se sei fortunato e sei capitato in una scuola prestigiosa.
Certo, ci sono anche degli idioti che poi fanno preselezione negli ambiti di lavoro in base a quale scuola di cinema hai frequentato, senza capire che la migliore palestra è la vita ed è quello che fai tu che dimostra chi sei, insieme al talento e al potenziale, che vanno saputi riconoscere.
- Parlaci meglio della Helix Pictures
La Helix Pictures è una piccola realtà nata praticamente con Rumore Inverso, e io come filmaker sono nato con lei. È l’associazione culturale che mi ha permesso di muovere i primi passi importanti nel video. Ha sede in Toscana, e si propone come termine la valorizzazione del territorio e la divulgazione della cultura. Il suo nome deriva dalla Nebulosa Elica, “L’occhio di Dio”, perché le sue coordinate spaziali sembravano un buon augurio sia per me che per gli altri suoi fondatori. Il lavoro nella Helix prevedeva una ricerca sul territorio (in tutti i sensi, visto che si occupa sia di cinema indipendente che di trekking) dove trovavamo le storie nascoste di un borgo o di un’area geografica, o semplicemente dei luoghi che ispirassero una certa storia, e poi venivano rielaborati cinematograficamente, spesso unendovi idee di fantasia. Con la Helix ho girato diversi cortometraggi, uno su un eccidio nazista avvenuto a Guardistallo, un altro sulle leggende sui templari che ruotano intorno a Bibbona, un altro ancora su una casa infestata a Pomarance… Si tratta di piccoli paesi che racchiudono storie, e attraverso le storie cercavamo di restituire l’anima di quel paese.
La Helix è una bella struttura per il cinema indipendente, per me è stata un’opportunità essenziale, e vorrei che anche altri giovani delle mie zone potessero averla. Ma è difficile, perché è una struttura che si regge sulla passione dei volontari che vi partecipano, senza fini di lucro, e non ci sono molte persone che capiscono l’importanza di fare qualcosa senza che ci siano i soldi di mezzo, né quanto possa essere utile un percorso di educazione all’immagine filmica e al linguaggio cinematografico anche per chi non è interessato a trasformare questa passione in un lavoro. Ci sarebbe più senso critico e vedremmo in giro molte meno schifezze, se tutti le sapessero distinguere. Wim Wenders sottolineava qualche anno fa l’importanza di introdurre il cinema come materia nelle scuole, per non rendere i giovani vittima della cultura fast-food, per rendere le persone migliori. Dato che sulla scuola non si può fare affidamento, la Helix può essere una proposta alternativa, e per me lo è stata.
- Raccontaci del tuo lavoro per Benetton
In realtà lavoro per Fabrica, che è il centro di ricerca sulla comunicazione di Benetton, fondato nel 1994 da Oliviero Toscani e Luciano Benetton. E in realtà non è proprio un lavoro, è qualcosa di ibrido tra studio e lavoro. Si potrebbe paragonare a un dottorato di ricerca, ma non è neanche questo. Fabrica è una di quelle belle opportunità che ci sono in Italia, forse una tra le migliori per un artista emergente. Sognavo di arrivare qua almeno da cinque anni, e buona parte del mio cammino dopo Rumore Inverso l’ho compiuta pensando a Fabrica. E sono stato fortunato, perché il mio portfolio è finito nelle mani di Alessandro Favaron, che è un filmaker competente e intelligente, con più di vent’anni di esperienza alle spalle, una gran voglia di insegnare e un’estetica per certi versi simile alla mia. È il capo dipartimento del Settore Produzione Video di Fabrica, ci siamo conosciuti nella settimana di prova che sono venuto a fare a Treviso, e c’è stata subito una bella energia, sia da parte sua che dei miei colleghi… L’ambiente è anche meglio di come me lo ero immaginato!
Fabrica ha anche aree dedicate alle campagne pubblicitarie di Benetton, al Design creativo e interattivo, alla Musica, alla Fotografia… All’interno di queste aree ci sono giovani provenienti un po’ da tutto il mondo, è un ambiente internazionale formato da persone positive e in gamba, dove si crea, si lavora, ma si ha anche il tempo di respirare e rilassarsi. Sono qui da un mese, quindi mi sto ancora ambientando, ma abbiamo già compiuto parecchi lavori. La maggior parte del nostro lavoro verte sulle attività di Benetton – si tratta sia di video interni all’azienda, sia di video riguardanti le attività di Fabrica, sia backstage e pubblicità – ma c’è anche spazio per attività creative, video arte, documentari… Negli anni Fabrica ha prodotto delle installazioni e dei documentari di eccellenza nel panorama mondiale, ha partecipato alla realizzazione di No Man’s Land di Tanovic, che ha vinto un oscar come miglior film straniero nel 2001, e ha prodotto – tra gli altri – il documentario La gente resta, che ha da poco vinto il premio della giuria al Festival del Cinema di Torino.
- Hai qualche consiglio da dare a chi sogna di diventare un regista?
Personalmente sento di avere ancora tantissima strada da fare prima di permettermi di dare consigli per “diventare registi”, ma sento di poter dire almeno tre cose.
La prima, e la più banale: non c’è niente che non sia a portata di mano, se si è disposti a lottare e a impegnarsi davvero per raggiungere un obbiettivo. Per diventare qualsiasi cosa ci vuole impegno, costanza e fatica. Chiunque si metta in gioco poi può trovare la strada per arrivare dove vuole, magari con qualche deviazione, qualche incidente di percorso, ma alla fine si arriva.
Seconda cosa: non si può pensare di essere registi senza saperne di recitazione, di scrittura, di montaggio, di illuminazione, di fotografia, di arte, di letteratura, di estetica… Ognuno avrà delle competenze in cui è più ferrato, altre in cui lo è meno, ma bisogna conoscere un po’ di tutto, e a dispetto di quello che ci propone la settorializzazione del mondo contemporaneo, penso sempre che più si è ibridi meglio è. Se si deve essere artisti, lo si fa attraverso molteplici attività e senza sottovalutare la tecnica, come nel Rinascimento.
Terza, fondamentale: se dovete fare sacrifici economici per imparare a fare cinema, fateli per voi e non per buttarli in una scuola. Prendete una telecamera e datevi da fare!
Ringraziamo Mattia per averci concesso questa intervista che ci ha permesso di conoscere, oltre alla sua carriera, anche un fiorente spaccato della realtà dello spettacolo italiano attuale. Le nostre interviste sui cineasti indipendenti e gli artisti emergenti del mondo del cinema e del teatro ritorneranno Mercoledì prossimo, non perdetevi il nostro prossimo articolo! E continuate a seguirci su Facebook e Twitter.